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Srotolare dagli archivi del «Corriere» una storia complicata… Son passati vent’anni da quando Fabrizio De André se n’è andato. Un soffio. Perché De André è ancora qui: anche tra quei giovani che vent’anni fa non erano ancora nati o erano bambini o ragazzini «che la mamma non vuole che sento le sue canzoni perché dice le parolacce e racconta storie tristi e cattive».
Erano i tempi dei jukebox, tre canzoni cento lire e la trasgressione di sentire le gesta di Re Carlo che torna dalla guerra e immaginare quelle «grandi puttane» oppure sognare di essere lì accanto a Bocca di Rosa «che lo faceva per passione» e – addirittura – vedersi mentre sali quei gradini alti e stretti di Via del Campo dove davanti a te ondeggia il culo di una ambigua «graziosa» che ti guida in quel paradiso che sta lì, appena al primo piano.
Srotola ancora e trovi Brassens e Leonard Cohen. L’anarchia, anche degli amori. De André sapeva essere struggente come un amore vero o «un amore nuovo» e sapeva essere incendiario come un ribelle cocciuto.
In direzione «ostinata e contraria» c’è sempre andato. Dai tempi degli studi: a sei esami dalla laurea in giurisprudenza nella prestigiosa facoltà di via Balbi a Genova ha mandato tutti a quel paese; meglio i vicoli del peccato, della mala, dell’emarginazione, proprio lì sotto, verso il porto, meglio le paludi dei marinai in cerca di una donna che non le paludate stanze dei professori dell’università.
Nel 1967 De André, all'epoca ancora studente universitario, diviene noto al grande pubblico come autore della Canzone di Marinella (1964), incisa proprio quell'anno da Mina su 45 giri (Rai)
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Anarchico sì. Ma con delle regole. Regole morali le aveva eccome. Cantava e praticava: «Quello che non ho è un segreto in banca… i tuoi denti d’oro… un pranzo di lavoro». Detestava i salotti radical-chic in cui tutti si sciacquano la bocca con lo champagne degli ideali anarco-comunisti e frequentava i circoli anarchici autentici di Genova e Carrara (vino rosso del contadino accanto). E poi è tanto facile parlare di sottoproletari, sfruttati, devianti, malavitosi per necessità: gente che va – perlomeno – capita se si comporta male. Basta pensare a quando fece diminuire – e di molto – la pena ai suoi sequestratori sardi. Niente vendetta, ma perdono. E giustizia e comprensione. E una bella – come tutte – canzone: «Hotel Supramonte» che magari serviva anche a recuperare qualche soldo da restituire al papà che aveva pagato l’importante riscatto.
A proposito del padre: la leggenda di De André Fabrizio ha deformato anche l’immagine di De André Giuseppe. Un babbo colto, generoso, tollerante, democratico, mazziniano, amante della musica alta, ma che non è nato super-manager, lo è diventato dopo anni di gavetta.
E, comunque, anche con un padre così Fabrizio aveva qualche conflitto. Tipo: lui babbo, di origini piemontesi era tifoso del Torino. Lui figlio, per contrasto era tifoso, supertifoso, del Genoa. In una intervista alla «Gazzetta dello Sport» quando si parlava di fusione tra Genoa e Sampdoria elaborò una maliziosa tesi per dire il contrario di quello che stava dicendo. Suonava così: sì si poterebbe fare una squadra sola ma andrebbe chiamata Genova (praticamente uguale a Genoa), i colori dovrebbero essere come quelli del Barcellona (rossoblù come il Genoa) e verticali (la Sampdoria ha colori orizzontali, «da ciclisti», diceva ridendo).
Era, De André, amico di don Andrea Gallo, il prete dei poveri e dei drogati e delle prostitute e delle transessuali: tutta gente che Fabrizio sapeva capire e cantare. Ha detto don Gallo, che in Dio ci credeva davvero: «Magari De André aveva dei dubbi sul mio Dio, ma non c’è dubbio che Faber incarnava lo spirito di Gesù Cristo e del Vangelo».
E poi la Fernanda Pivano. A parte la esagerazione (?): «Fabrizio è il più grande poeta italiano», ecco le sue parole: «Le sue sembravano parole un po’ pazze, invece sono state una profezia… il suo è un messaggio di pace, di non violenza, di anarchico amore… per questo i giovani, che non si sbagliano mai, mi fermano per strada per parlarmi di lui, mi fanno capire che la sua vita non è finita, è solo passata in un’altra realtà irraggiungibile dal denaro, dalla politica, dall’ingiustizia: dalla morte».
Ed ecco una dichiarazione d’amore di De André. A Dori Ghezzi: «Nelle mie canzoni io trasformo la gente, invece tu devi sempre restare quella che sei». E, a proposito d’amore; dica De André: qual è la più bella canzone d’amore mai scritta al mondo? «“Besame mucho”, scritta da una donna… una speciale nostalgia del presente espressa dal timore di perdere l’oggetto del desiderio».
Bene, srotolando qui sotto troverete anche una chicca: un testo scritto e firmato da De André il 15 marzo del 1975 sul «Corriere d’Informazione». «Giustifica» la sua prima apparizione pubblica nientemeno che al Tempio Borghese della Bussola di Focette; ribaltando le tesi di McLuhan, Faber sussurra: «L’importante è quel che si dice, non il mezzo con cui si comunica».